FATTO E DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Bari riformava parzialmente in senso favorevole al reo, limitatamente alla determinazione dell'entità del trattamento sanzionatorio, la sentenza con cui il tribunale di Bari, in data 19.12.2019, aveva condannato Q.M. alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile L.M., in relazione ai reati ascrittigli nei capi A) (art. 582 c.p.); B) (art. 582 c.p.); D) (art. 612 bis c.p., ultimo capoverso).
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputato, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di inadeguata valutazione delle risultanze processuali da parte della corte territoriale, con riferimento al reato di cui al capo D).
3. Il ricorso non può essere accolto, essendo fondato su motivi che si pongono ai confini della inammissibilità.
Il ricorrente non tiene nel dovuto conto che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Cass., Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).
Ed invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dal menzionato ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
In altri termini, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale, in realtà non configurabili nel caso in esame, posto che il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione su di un esaustivo percorso argomentativo, contraddistinto da intrinseca coerenza logica. 3.1. Va, comunque, rilevato che i motivi di ricorso si concentrano sulla natura delle condotte poste in essere in danno della L., per negarne la rilevanza penale, sulla base, tuttavia, di una valutazione atomistica delle condotte stesse.
Al riguardo si osserva che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, il reato di atti persecutori, configurando un'ipotesi di reato abituale, si caratterizza per il compimento di più atti realizzati in momenti successivi, rappresentando ciascuna delle singole azioni un elemento della serie, al realizzarsi della quale sorge la condotta tipica rilevante anche ai fini della procedibilità (cfr. Cass., Sez. 5, n. 12509 del 17/11/2015, Rv. 266839).
Ad integrare il delitto di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p., secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, sono sufficienti, come è noto, anche due sole condotte di minacce, molestie (o lesioni), pur se commesse in un breve arco di tempo, in quanto anche due sole condotte di tale natura sono idonee a costituire la "reiterazione" richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale (cfr. Cass., ex plurimis, Sez. 5, n. 33842 del 03/04/2018, Rv. 273622).
Orbene, nel caso in esame, non è revocabile in dubbio che, come correttamente ritenuto dalla corte territoriale, sia configurabile la reiterazione di più atti di molestie e minacce in danno della parte civile. Non possono, infatti, che qualificarsi in termini di molestie e minacce le plurime condotte poste in essere dal Q., consistenti: 1) nell'inoltro mediante il proprio profilo attivato sul social network "Facebook" di "post" rivolti alla L., dal contenuto molesto ("e' inutile che cancellate le risposte che mettono sui miei post o non me li fate pubblicare. Le persone conosceranno la verità di cosa state facendo a me ma soprattutto a mia figlia. Non avrò pietà. La giustizia vi farà pagare amaramente") o palesemente minaccioso ("e se ce la faccio prima di morire demolisco te e la tua famiglia, fosse l'ultima cosa"), di cui la persona offesa aveva contezza direttamente ovvero per esserne informata su iniziativa di vicini di casa e conoscenti e che lo stesso imputato, come rilevato dal giudice di secondo grado, riconosceva di avere inviato; 2) nell'appostamento effettuato dal prevenuto in data (OMISSIS), presso l'abitazione dei genitori della parte civile, L.M. e M.L.; 3) nella grave aggressione fisica perpetrata dal Q. il 25.8.2017, nei pressi di una stazione di servizio, in danno di questi ultimi, da lui colpiti ripetutamente con pugni e schiaffi in presenza della figlia minore dell'imputato e della L.M..
Ed invero, approfondendo per un momento lo sguardo sulla nozione di molestia accolta dall'art. 612 bis c.p., si osserva che essa tendenzialmente non differisce strutturalmente da quella che informa di sé l'elemento oggettivo del reato contravvenzionale di cui all'art. 660 c.p., sembrando differenziarsi le due fattispecie normative solo sotto il profilo della diversa intensità delle conseguenze che la condotta molesta determina nei confronti del soggetto passivo del reato.
Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all'art. 660 c.p., consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all'art. 612-bis c.p., solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all'art. 660 c.p., ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (cfr. Cass., Sez. 5, n. 15625 del 09/02/2021, Rv. 281029; Cass., Sez. 6, n. 23375 del 10/07/2020, Rv. 279601).
Partendo proprio dalla interpretazione della previsione normativa di cui all'art. 660 c.p., elaborata dalla giurisprudenza di legittimità può, dunque, affermarsi che per molestia deve intendersi, innanzitutto, qualsiasi condotta oggettivamente idonea a interferire significativamente nell'altrui vita privata e nell'altrui vita di relazione, alterando la condizione psichica di una persona (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8198 del 19/01/2006, Rv. 233438; Cass., Sez. F, n. 45315 del 27/08/2019, Rv. 277291).
Un ulteriore contributo al riguardo, particolarmente rilevante al fine di meglio definire, nel rispetto dei principi di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, la nozione di "molestia", penalmente rilevante ai sensi dell'art. 612 bis c.p., viene fornito dalla Direttiva del Parlamento Europeo n. 2006/54/CE, che, nel definire il concetto di "molestie" e di "molestie sessuali", in relazione all'attuazione del principio di pari opportunità in materia di occupazione e di impiego, pone l'accento, come evidenziato in dottrina, sulla violazione della dignità della persona offesa, attraverso la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo.
In questo contesto si inseriscono condivisibili orientamenti della giurisprudenza di legittimità, che qualificano come "molestia" la condotta di chi reiteratamente pubblica sui "socia) network" foto o messaggi aventi contenuto denigratorio della persona offesa, in violazione del suo diritto alla riservatezza (cfr. Cass., Sez. 5, n. 26049 del 01/03/2019, Rv. 276131; Cass., Sez. 6, n. 32404 del 16/07/2010, Rv. 248285) o pone in essere un insistente pedinamento della persona offesa, in modo da interferire nella sfera di libertà di questa e da arrecarle turbamento (cfr. Cass., Sez. 1, n. 18117 del 11/02/2014, Rv. 259295).
Risultando centrale, nella ricostruzione della nozione di "molestia", come per quella di "minaccia", l'indebita ingerenza nella sfera individuale della persona offesa, idonea a comprometterne la serenità e la libertà psichica, appare del tutto irrilevante che i comportamenti concreti addebitabili all'autore del reato siano da quest'ultimo posti in essere in danno di soggetti diversi dalla persona offesa, purché tali condotte, portate a conoscenza del destinatario finale della molestia (o della minaccia), siano in grado di incidere nei termini innanzi precisati sulla sfera individuale di quest'ultimo.
In questo senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità, rilevando, ad esempio, come sia configurabile il delitto di violenza privata nel caso di minaccia indiretta o mediata, rivolta a persona diversa dalla vittima, ad essa legata da vincoli di parentela o di affetto, quando vi sia certezza che l'intimidazione giunga a sua conoscenza (cfr. Cass., Sez. 5, n. 9573 del 01/02/2021, Rv. 280625) ovvero integri il delitto di estorsione la condotta dell'agente che rivolga la violenza o la minaccia a persona diversa dal soggetto al quale è richiesto l'atto di disposizione patrimoniale, sempre che la condotta sia idonea ad influire sulla volontà di quest'ultimo (cfr. Cass., Sez. 2, n. 23759 del 11/03/2021, Rv. 281459).
Nella indicata prospettiva anche le lesioni personali volontarie arrecate dal soggetto attivo del reato a familiari della persona offesa dal reato ex art. 612 bis c.p., rientrano, al tempo stesso, nella nozione di molestia e di minaccia, in quanto, da un lato, costruiscono intorno alla persona offesa dal reato di atti persecutori un clima intimidatorio e ostile; dall'altro rendono concreta la possibilità di analoghi atti dannosi, desumibile dalla precedente condotta (cfr., in questo senso, con riferimento alla condotta di danneggiamento, Cass., Sez. 5, n. 10994 del 12.12.2019, Rv. 278857).
Alla luce di tali principi non risulta contestabile che le condotte poste in essere dal Q., come innanzi descritte e complessivamente considerate, siano riconducibili alle nozioni di "molestia" e di "minaccia", essendosi concretizzate in una indebita ingerenza, sia immediata che mediata, nella sfera individuale della persona offesa, idonea a comprometterne la serenità e la libertà psichica, come dimostrato in tutta evidenza dal conseguente insorgere nella L. di un perdurante e grave stato di ansia, nonché di un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto (in particolare dei genitori), che costituiscono alcuni degli eventi alternativamente previsti per l'integrazione del reato ex art. 612 bis c.p..
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
Va, infine, disposta l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003 n. 196, art. 52, comma 5.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 n. 196, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 16 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022