RITENUTO IN FATTO
1. V.M. ed P.E. ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Roma ha confermato quella del Tribunale con la quale i ricorrenti erano stati condannati alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 150 di multa ciascuno per il reato previsto dall'art. 110 c.p. e art. 349 c.p., commi 1 e 2, per avere, in concorso tra loro, in data 20 agosto 2009, violato i sigilli apposti all'atto del sequestro del 26 giugno 2007 e del 29 giugno 2007, con cui gli indagati furono nominati custodi giudiziari proseguendo così i lavori edili.
2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza i ricorrenti, tramite il comune difensore, sollevano due motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo essi deducono la violazione di legge ed il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 51 e 349 c.p. e art. 192 c.p.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e).
Sostengono che l'attività edilizia posta in essere era stata adempiuta in ossequio all'adempimento di un dovere in forza dell'art. 51 c.p., laddove la Corte di appello ha invece ritenuto che, in ogni caso, qualsiasi intervento sull'immobile sottoposto a sequestro avrebbe dovuto essere autorizzato dall'autorità giudiziaria competente, senza tuttavia tenere conto dell'urgenza con la quale le opere andavano eseguite per preservare l'immobile, oggetto di custodia, e con esso per tutelare un bene fondamentale quale è quello della salute della persona.
2.2. Con il secondo motivo, lamentano la violazione di legge e il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 62 c.p., n. 1) e artt. 62-bis e 349 c.p. nonchè art. 192 c.p.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), sul rilievo del mancato riconoscimento di un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante, essendosi limitata la Corte di appello ad affermare come andasse confermato il giudizio di equivalenza perchè riconosciuto dal giudice di primo grado "per adeguare la pena alla disvalore del fatto". Tuttavia, la Corte di appello, nel pervenire a tale conclusione, avrebbe steso una motivazione contraddittoria e manifestamente illogica non avendo tenuto conto degli elementi della modesta entità dell'intervento edilizio effettuato nonchè delle ragioni eminentemente conservative ed urgenti per le quali l'intervento stesso era stato eseguito, circostanze che avrebbero dovuto indurre la Corte del merito a stimare, nel giudizio di comparazione, prevalenti le circostanze attenuanti rispetto a quelle aggravanti. Inoltre la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere l'attenuante comune di cui all'art. 62 c.p., n. 1), sul rilievo che la posa in opera della guaina di protezione dell'intera superficie venne effettuata al fine di scongiurare le infiltrazioni di acqua e di umidità, che si sarebbero inevitabilmente prodotte laddove l'intervento di straordinaria, quanto urgente, manutenzione non fosse stato effettuato. In tal caso, infatti, l'ambiente sarebbe risultato totalmente umido ed insalubre e, quindi, pernicioso per la salute delle persone, con la conseguenza che detto intervento fu effettuato soprattutto a tutela di un bene fondamentale della persona, ossia la salute, garantita dall'art. 32 Cost.. In tale quadro la Corte di appello avrebbe indubbiamente potuto riconoscere l'attenuante del fatto di particolare valore morale e sociale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Sul punto, la Corte d'appello ha precisato che qualunque intervento sull'immobile sottoposto a sequestro, quand'anche riconducibile a finalità di conservazione del bene, doveva essere previamente autorizzato dalla competente Autorità giudiziaria, chiamata anche a stabilire e modalità di esecuzione del richiesto intervento (che sicuramente, nel caso di specie, si sarebbe risolto, tutt'al più, nell'autorizzazione all'apposizione di mezzi di protezione provvisori e rimovibili, ben diversi dalla contestata prosecuzione dell'opera).
In altri termini, la condotta doveva essere eseguita sulla base di un ordine impartito dall'autorità, in quanto l'adempimento di un dovere, per valere come causa di giustificazione di un comportamento contra legem, deve essere imposto da una norma giuridica e, quindi, deve rientrare nell'ambito dei doveri propri del diritto pubblico, onde i soggetti che ne possono beneficiare sono i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio ed i privati esercenti un servizio di pubblica necessità, oppure deve essere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità sicchè, in questo caso, può valere come scriminante ma presuppone un rapporto di subordinazione che trovi fondamento nel diritto pubblico (Sez. 4, n. 1458 del 20/10/1967, dep.1968, Bertini, Rv. 106955).
Ne consegue che, in materia di cause di giustificazione, non è configurabile la scriminante dell'adempimento di un dovere (art. 51 c.p.), qualora l'agente si avvale di una situazione giuridica esercitabile solo previa autorizzazione dell'Autorità senza formulare alcuna richiesta di rilascio del provvedimento autorizzativo (v. Sez. 3, n. 23484 del 07/03/2014, Petroni, Rv. 259662, in tema di esercizio di un diritto), giacchè l'adempimento di un dovere scrimina nei limiti in cui esso è riconosciuto, dovendosi verificare, per l'applicabilità della scriminante, una convergenza di norme che, di contenuto incompatibile, siano in conflitto tra loro (Sez. 1, n. 9368 del 07/06/1985, Silani, Rv. 170766), situazione che si verifica quando un medesimo soggetto sia destinatario, in una data situazione concreta, di due doveri (di cui almeno uno imposto da una norma incriminatrice) ed il cui superamento non può essere affidato ad autonome iniziative dell'agente, perchè la condotta deve essere imposta, per espressa previsione normativa, da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell'autorità.
L'articolo 51 del codice penale dichiara, infatti, non punibile il fatto commesso nell'adempimento di un dovere giuridico, cosicchè l'applicazione della disposizione scriminante presuppone già risolto, in senso favorevole alla norma attributiva del dovere, il conflitto di doveri che si instaura tra tale norma e la norma incriminatrice.
Nel caso in esame, i ricorrenti hanno, all'evidenza, agito al di fuori dell'ambito di operatività della norma scriminante invocata.
4. Anche il secondo motivo è inammissibile.
In primo luogo, deve reputarsi di alcun rilievo il riferimento, del tutto nuovo, al comportamento di particolare valore morale e sociale.
In ogni caso, va precisato, in secondo luogo, che la Corte territoriale ha chiarito come il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante fosse stato fondato sulla necessità di adeguare la pena al disvalore del fatto, parametrando, all'esito, la pena sul minimo edittale, in maniera che la sanzione inflitta risultasse perfettamente calibrata sulle specifiche modalità obiettive e soggettive del fatto storico nonchè sulle peculiari caratteristiche della personalità degli agenti nonchè rispettosa del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e delle finalità indicate dall'art. 27 Cost., comma 3 di cui la "congruità" costituisce elemento essenziale.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte capitolina si è attenuta al principio di diritto secondo il quale, in tema di concorso di circostanze, il giudizio di comparazione risulta sufficientemente motivato quando il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 69 c.p., scelga la soluzione dell'equivalenza, anzichè della prevalenza delle attenuanti, ritenendola quella più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. 2, n. 31531 del 16/05/2017, Pistilli, Rv. 270481).
5. Sulla base delle precedenti considerazioni, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili e ciò comporta l'onere per i ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che i ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 24 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018