RITENUTO IN FATTO
1. Con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Trento ha dichiarato inammissibile l'istanza di affidamento in prova al servizio sociale, avanzata da G.M., detenuto in espiazione della pena di tre anni e sette mesi di reclusione, inflittagli per il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.).
Il Tribunale ha rilevato che tale reato ricade nel catalogo di cui all'art. 4-bis, comma 1-quater, Ord. pen. (c.d. terza fascia), a mente del quale le misure alternative alla detenzione non possono essere concesse se non sulla base dell'osservazione scientifica della personalità, condotta per almeno un anno all'interno dell'istituto penitenziario; presupposto che, rispetto a G., arrestato solo il 1 giugno 2019, non ricorreva.
2. Il condannato ha proposto ricorso per cassazione, con il ministero del suo difensore di fiducia, deducendo l'erronea applicazione della menzionata disposizione della legge penitenziaria.
Il ricorrente, premesso che il reato era stato consumato nell'anno 2008, anteriormente all'introduzione della disposizione stessa nell'ordinamento giuridico, avvenuta ad opera del D.L. n. 11 del 2009, art. 3, comma 1, lett. a), conv. dalla L. n. 38 del 2009, osserva che quest'ultima, e con essa il presupposto della previa detenzione annuale, non può operare retroattivamente. Le norme in materia di esecuzione penale, se incidenti sulla natura afflittiva della relativa sanzione, avrebbero infatti natura sostanziale e sarebbero pertanto soggette ai principi sulla successione delle leggi nel tempo di cui all'art. 25 c.p., comma 2, e art. 2 c.p., comma 1, importanti il divieto di applicazione di trattamenti punitivi peggiorativi, successivi alla condotta criminosa posta in essere.
Alla data del commesso reato, la relativa norma incriminatrice (art. 609-bis c.p.) era inclusa nella c.d. seconda fascia di cui all'art. 4-bis Ord. pen., e l'accesso all'affidamento in prova al servizio sociale era per l'effetto consentito, alla sola condizione che non risultassero elementi tali da far ritenere l'esistenza di collegamenti tra il condannato e la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Tale regime andrebbe tuttora osservato nei suoi confronti.
In subordine, il ricorrente eccepisce l'illegittimità costituzionale del citato D.L. n. 11 del 2009, art. 3, comma 1, lett. a), conv. dalla L. n. 38 del 2009, nella parte in cui esso, modificando il regime esecutivo applicabile ai condannati per il reato di violenza sessuale, non avrebbe limitato l'incidenza dello ius novum ai soli fatti criminosi posteriori alla sua entrata in vigore. In tal senso interpretata, infatti, tale disciplina violerebbe il principio costituzionale di irretroattività della legge penale sfavorevole (art. 25 Cost., comma 2, nonchè, per il tramite dell'art. 7 CEDU, art. 117 Cost., comma 1), quello di affidamento e ragionevolezza (art. 3 Cost., comma 1) e il finalismo rieducativo della pena (art. 27 Cost., comma 3).
3. Con istanza presentata ai sensi del D.L. 8 marzo 2010, n. 11, art. 2, comma 2, lett. g), n. 2, lett. a), (trasfuso nel D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 3, lett. b, n. 1, in corso di conversione in legge), il ricorrente ha chiesto la trattazione del procedimento, in relazione al suo attuale stato di detenzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
2. La giurisprudenza di legittimità, sin dall'introduzione nell'ordinamento giuridico dell'art. 4-bis Ord. pen., per effetto del D.L. n. 152 del 1991, art. 1, comma 1, conv. dalla L. n. 203 del 1991, ha affermato l'applicabilità delle preclusioni e restrizioni da esso recate anche in rapporto alle detenzioni già in essere (Sez. 1, n. 3427 del 20/09/1993, Ruga, Rv. 195289-01), e quindi ai fatti anteriormente giudicati, o anche solo commessi.
Tale indirizzo interpretativo è rimasto fermo nel tempo, pur a fronte del progressivo ampliamento delle fattispecie ricomprese nel catalogo del citato art. 4-bis, sul presupposto che le disposizioni legislative, le quali individuano i delitti ostativi ai benefici penitenziari, o stabiliscono comunque inasprimenti della disciplina di accesso ai medesimi, siccome relative alle sole modalità di esecuzione della pena siano di immediata applicazione anche ai fatti e alle condanne pregresse (Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, A., Rv. 233976-01; Sez. 5, n. 30558 del 01/07/2014, Ficara, Rv. 262489-01; Sez. 1, n. 32000 del 06/07/2006, Hacisuleymanoglu, Rv. 234381), salvo che il legislatore deroghi al principio mediante apposita regolamentazione transitoria (Sez. 1, 11580 del 05/02/2013, Schifato, Rv. 255310-01), nel caso in esame, peraltro, non esistente.
3. L'indirizzo in parola deve essere tuttavia rimeditato, alla luce dell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in ordine all'incidenza del divieto di retroattività, sancito dall'art. 25 Cost., comma 2, sulla disciplina dell'esecuzione della pena.
4. Nella sentenza n. 32 del 2020, infatti, la Corte costituzionale - chiamata a scrutinare la legittimità costituzionale della L. 9 gennaio 2019, n. 3, recante, tra l'altro, misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nella parte in cui non prevede che le modifiche da essa apportate all'art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. si applichino soltanto ai condannati per fatti commessi successivamente all'entrata in vigore della legge stessa - ha offerto, appunto in relazione alla disciplina dell'esecuzione della pena, una aggiornata lettura della portata del divieto di retroattività sancito dal menzionato art. 25 Cost., comma 2.
4.1. Osserva il giudice delle leggi, nella predetta sentenza, che da tale disposizione costituzionale discende tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato; divieto, quest'ultimo, che trova esplicita menzione nell'art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU, nell'art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonchè nell'art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE). Per un verso, il divieto in parola mira a garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale. E ciò sia per garantirgli, in linea generale, la "certezza di libere scelte d'azione"; sia per consentirgli poi, nell'ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo carico, di compiere scelte difensive, con l'assistenza del proprio avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna.
Il medesimo divieto, inoltre, erige un bastione a garanzia dell'individuo contro possibili abusi da parte del potere legislativo, da sempre tentato di stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti. Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora previste, opera, in questo senso, come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di Stato cl; diritto.
Tali principi non ostano, secondo la Corte costituzionale, all'accoglimento della tesi, consacrata dal diritto vivente, alimentato dall'orientamento della giurisprudenza di questa Corte in principio richiamata, secondo la quale le pene debbano essere eseguite, di regola, in base alla legge in vigore al momento dell'esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato. Una siffatta soluzione è imposta dalla natura diacronica del fenomeno esecutivo, il cui regime, mutando il contesto, fattuale e normativo, nel quale l'amministrazione penitenziaria si trova a operare, non potrebbe restare cristallizzato alla disciplina vigente al momento del fatto. Essa è altresì imposta dal rilievo per cui le regole trattamentali sono basate su complessi bilanciamenti, fisiologicamente mutevoli, tra i delicati interessi in gioco, nonchè dall'esigenza di impedire che un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina in materia finisca per creare, all'interno del medesimo istituto penitenziario, una pluralità di regimi esecutivi paralleli, impossibile da gestire per l'amministrazione e foriera di ingiustificate differenze di trattamento tra i detenuti.
4.2. Allorchè, tuttavia, la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena stessa, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato, i principi sottesi all'art. 25 Cost., comma 2, non tollerano compressione nè adattamento alcuno.
Rileva infatti la Corte costituzionale che, in tal caso, la successione normativa determinerebbe, se non circoscritta ai fatti di reato posteriori, l'applicazione di una pena che sarebbe sostanzialmente un aliud rispetto a quella legalmente stabilita al momento della violazione, con frustrazione delle garanzie che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato.
Il rischio di trasformazione deve essere apprezzato, in linea generale, in esito a valutazioni prognostiche, relative al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che potrebbe derivare dal mutato quadro normativo. La deteriore trasformazione sussiste, a fronte del serio rischio che il condannato possa essere assoggettato a un trattamento più severo di quello che era ragionevolmente prevedibile al tempo del reato, in termini di probabilità e vicinanza di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione, quali quelle introdotte dalle misure alternative alla detenzione di cui al titolo primo, capo sesto, dell'ordinamento penitenziario.
Sono queste, rileva ancora il giudice delle leggi, "misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena (...) e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto", finendo così per costituire delle vere e proprie "pene" alternative alla detenzione disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un'accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva. Ciò vale, in particolare, quanto all'affidamento in prova al servizio sociale, che costituisce "strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l'esito positivo dell'affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (...)".
5. Questa Corte di legittimità intende aderire alla più pregnante lettura dell'art. 25 Cost., comma 2, così validamente argomentata e proveniente dall'Organo istituzionalmente deputato all'interpretazione dei precetti costituzionali.
Da essa deriva la necessità di rivedere la tradizionale esegesi dell'art. 4-bis Ord. pen., riguardo al regime intertemporale di sua applicazione.
Gli aggravamenti di disciplina, in punto di accesso alle misure alternative alla detenzione, previsti dal testo della disposizione introdotto nel 1991, da leggi successive resi via via più stringenti, nonchè estesi ad un numero crescente di fattispecie di reato, integrano un assetto punitivo peggiorativo, che impegna le garanzie di cui alla citata norma costituzionale, in quanto, à seconda dei casi, tale assetto preclude in modo assoluto, ovvero rende significativamente meno probabile, o più lontana nel tempo, la concessione delle misure stesse. Lo ius superveniens non può pertanto, nelle parti corrispondenti, operare retroattivamente.
Tale notazione si attaglia anche alle interpolazioni disposte, nella trama della disposizione, per effetto del D.L. n. 11 del 2009, art. 3, comma 1, lett. a), conv. dalla L. n. 38 del 2009, il quale, nel ridisegnare l'intera impalcatura dell'art. 4-bis Ord. pen., ha istituito al suo interno la c.d. terza fascia, contrassegnata dal condizionamento dei benefici penitenziari all'espletamento di un periodo minimo di osservazione all'interno dell'istituto di pena. In tale fascia è stato inserito, tra l'altro, il reato di violenza sessuale di cui all'art. 609-bis c.p. (salvo che risulti applicata, come nel caso di specie non avvenuto, la circostanza attenuante dallo stesso contemplata); reato per il quale, in precedenza, la concessione di misure alternative era solo subordinata alla mancata emersione di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva (e, in relazione a ciò, erano previsti adempimenti aggiuntivi aventi mera natura istruttoria).
Il reato di violenza sessuale è sicuramente estraneo, nella fattispecie strutturale e nelle normali manifestazioni empiriche, ai contesti criminali del genere suindicato, sicchè non può negarsi che la novella legislativa abbia inciso in senso deteriore sulla prospettiva del condannato di essere ammesso, già all'atto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e senza alcun periodo minimo di permanenza necessaria in carcere, sulla base della legge in vigore al momento del fatto, ad espiare la pena al di fuori del circuito carcerario.
Tanto basta per riconoscere alla disposizione, di cui al citato D.L. n. 11 del 2009, art. 3, comma 1, lett. a), conv. dalla L. n. 38 del 2009, un effetto di trasformazione, in parte qua, della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto di reato suindicato; con conseguente inapplicabilità della disposizione stessa, ai sensi dell'art. 25 Cost., comma 2, alle condanne per reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della novella legislativa, che ne ha indirettamente modificato l'ambito applicativo.
6. In accoglimento del ricorso, e previo assorbimento della proposta eccezione di legittimità costituzionale, l'ordinanza impugnata deve essere pertanto annullata, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Trento per rinnovato esame, da condurre alla stregua del canone ermeneutico sopra individuato.
P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Trento.
Così deciso in Roma, il 20 marzo 2020.
Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2020