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Reati contro la persona

Violenza sessuale: la condizione di inferiorità psichica della vittima può dipendere anche dalla minore età

Violenza sessuale

Cassazione penale sez. III, 08/10/2020, n.6148

In tema di violenza sessuale, la condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto, di cui all'art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p., può dipendere anche dalla minore età accompagnata da una situazione familiare che renda la persona offesa vulnerabile alle richieste dell'agente o da una condizione di menomazione strumentalizzata per accedere alla sfera intima della persona minore, così ridotta a mezzo per soddisfare l'altrui libidine. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna dell'imputato per la condotta induttiva esercitata nei confronti della figlia adottiva mediante una morbosa opera di persuasione e di graduale sessualizzazione della minore tale da alimentare la convinzione della stessa circa la doverosità e normalità di tali comportamenti sessuali).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 26 novembre 2018, il Tribunale di Roma, all'esito di giudizio abbreviato, ha condannato l'imputato alla pena di anni 7 di reclusione in relazione al reato di cui all'art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), art. 609-ter, comma 1, n. 1), 5) e 5-sexies), perchè, abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della figlia adottiva, la induceva a subire atti sessuali consistiti, dal gennaio 2013 all'agosto 2017, in palpeggiamenti delle parti intime e dal 2017 in poi in rapporti sessuali anali. Con la medesima sentenza il giudice ha altresì applicato all'imputato le pene accessorie ex art. 609-nonies c.p. e condannato il medesimo al risarcimento del danno in favore delle parti civili, da liquidarsi in separata sede, con il riconoscimento di una provvisionale immediatamente esecutiva in favore della minore, quantificata in Euro 20.000,00. Con sentenza del 18 novembre 2019, la Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto la pena inflitta all'imputato ad anni 6 di reclusione, confermando nel resto il provvedimento impugnato. 2. Avverso tale provvedimento l'imputato, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamentano la violazione dell'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), art. 609-quater c.p., commi 1 e 2, e vizi di motivazione. Si prospetta la questione, già dedotta nei motivi di appello, dell'errata qualificazione giuridica della condotta ascritta all'imputato, sussumibile, secondo la difesa, sotto il paradigma dell'art. 609-quater c.p. e non dell'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), difettando, quanto a quest'ultima fattispecie, ambedue i referenti normativi ipotizzati dai giudici di merito. In particolare, rispetto alla condotta induttiva, consistita, secondo la ricostruzione che emerge in sentenza, in una progressiva opera di persuasione della minore nel compiere atti sessuali sempre più invasivi, dai toccamenti fino alla istaurazione di una vera e propria relazione amorosa, mancherebbe la prova dell'inizio dei toccamenti, collocati dalla vittima, in modo contraddittorio, tra la quarta elementare e la seconda media; prova imprescindibile sia per accertare la sussistenza del reato, sia per verificare la corretta applicazione dell'aggravante ex art. 609-ter c.p., comma 1, n. 1), c.p. Del pari, non si evincerebbe dalla sentenza quali siano state le zone interessate dai palpeggiamenti, nè gli elementi da cui si è desunta la loro connotazione sessuale. Il rilievo formulato dal giudice di secondo grado per respingere le censure difensive volte a rilevare l'inattendibilità della vittima rispetto all'inizio dei palpeggiamenti - secondo il quale la stessa, in sede di indagini, aveva focalizzato i racconti solo sui rapporti più invasivi, mentre aveva riferito per la prima volta dei toccamenti solo in sede di incidente probatorio, collocandoli in quarta elementare - sarebbe illogico e in contrasto con le risultanze processuali, perchè, già nel verbale di s.i.t. del 2 febbraio 2018, la minore aveva narrato di ambedue i tipi di rapporti, collocando i toccamenti in prima media e i rapporti anali in terza media. Secondo la difesa, inoltre, l'interruzione dei toccamenti per volontà della minore e il considerevole lasso di tempo trascorso tra tali rapporti e quelli anali, collocati nel corso delle scuole medie, dimostrerebbero l'acquisizione, da parte della minore, di una piena capacità di discernimento e la possibilità della stessa di manifestare validamente il proprio consenso; elementi incompatibili con qualunque forma di induzione. Del pari, l'ulteriore considerazione svolta dalla Corte territoriale per affermare la sussistenza della condotta induttiva, relativa al rapporto di esclusiva complicità amorosa che l'imputato aveva istaurato con la figlia per indurla a subire passivamente gli abusi, non troverebbe riscontro nè nelle dichiarazioni rilasciate personalmente della vittima nè nei messaggi inviati dalla stessa ad un'amica confidente, nei quali aveva riferito che i rapporti tra il padre e la figlia naturale (di lei sorellastra) erano di identico tenore. Quanto al secondo paradigma della fattispecie contestata, riferito alla condizione di vulnerabilità della minore, la difesa sostiene che la Corte d'appello, senza indicare gli elementi fattuali nè le emergenze processuali dalle quali aveva ricavato lo stato di vulnerabilità, si sarebbe limitata ad affermare, sulla base del contenuto di alcune dichiarazioni contenute alle pagg. 33 e 34 dell'incidente probatorio, che tale condizione di debolezza della minore derivava dal convincimento, ingeneratole dall'imputato, di dovere accettare le iniziative sessuali per salvaguardare gli interessi della famiglia. Tale circostanza, tuttavia, troverebbe smentita nei messaggi scambiati tra la persona offesa e una sua confidente e in altri passi dell'incidente probatorio, da cui si evincerebbe che si trattava di una convinzione maturata autonomamente dalla minore, non indotta dal padre, nè tantomeno a lui manifestata. Del resto, dalle dichiarazioni trascritte alle pagg. 15-16 e 34 dell'incidente probatorio emergerebbe il rifiuto espressamente manifestato della vittima rispetto ai rapporti sessuali vaginali e il rispetto, da parte del padre, di tale rifiuto; circostanze che dimostrerebbero la capacità della minore di prestare un valido consenso al compimento degli atti sessuali, seppure nell'erronea auto-convinzione di contribuire all'equilibrio familiare. In ogni caso, la Corte territoriale, in modo contraddittorio, avrebbe definito la minore come una persona intelligente e colta al fine di screditare la tesi difensiva relativa all'eventuale condizionamento subito dalla L.M. (madre della confidente, che aveva indirizzato la figlia a denunciare i fatti), mentre l'avrebbe ritenuta vulnerabile e facilmente condizionabile per affermare la sussistenza della condotta induttiva da parte dell'imputato. Anche in merito ai rapporti sessuali anali, mancherebbe la prova che essi siano iniziati prima del compimento del sedicesimo anno di età della vittima, dato il disallineamento tra l'età naturale e l'età anagrafica della medesima (29 giugno 2001 in luogo del 29 settembre 2003) e la genericità delle dichiarazioni della stessa sul punto. Il percorso argomentativo seguito dal giudice al punto 3 della sentenza impugnata, secondo il quale, considerando l'8 giugno come data di fine anno scolastico e come data di nascita della persona offesa, quella più favorevole al reo del 29 giugno 2001, la vittima sarebbe stata minore di anni 16 sia alla fine dell'anno scolastico 2015/2016, sia alla fine dell'anno scolastico 2016/2017, sarebbe del tutto illogico poichè non terrebbe conto del fatto che la minore, senza riferire alcuna data certa, aveva genericamente collocato tali atti all'inizio dell'estate e prima della partenza della sorella, avvenuta nel mese di agosto, sicchè non potrebbe escludersi essi siano iniziati dopo il 29 giugno 2017, quando aveva già compiuto 16 anni. In siffatte ipotesi, sostiene la difesa, il principio in dubio pro reo avrebbe dovuto condurre alla sussunzione dei fatti nella fattispecie di atti sessuali con minorenne ex art. 609-quater c.p., comma 2; norma che, tuttavia, richiede, ai fini della punibilità del reato commesso nei confronti un soggetto che abbia compiuto il sedicesimo anno di età, che esso sia stato realizzato con l'abuso dei poteri connessi alla posizione da genitore. E dal momento che tale ultimo requisito non deriva ex se dal ruolo di genitore, e che nel caso di specie non vi era stata alcuna forma di costrizione o minaccia della minore, la Corte d'appello, tenuto conto di tali rilievi, avrebbe dovuto assolvere l'imputato per i rapporti anali. Riqualificato il reato più grave ai sensi dell'art. 609-quater c.p., comma 2, anche i toccamenti di minore gravità posti in essere dall'anno 2013 all'anno 2017 dovrebbero ricadere nell'art. 609-quater c.p., comma 1, n. 1 e comma 4, con tutte le conseguenze che ne derivano in punto di pena. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, infatti, la riqualificazione del reato quale art. 609-quater c.p., avrebbe condotto ad un ridimensionamento del trattamento sanzionatorio, poichè avrebbe impedito l'applicazione delle aggravanti ex art. 609-ter, c.p., riferibili alla sola violenza sessuale ex art. 609-bis c.p.. 2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., nonchè vizi di motivazione del provvedimento. Secondo la difesa, la condanna dell'imputato per i rapporti anali precedenti al 2017 comporterebbe la nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, dal momento che, in assenza di intervenute modifiche del capo di imputazione o di nuove contestazioni, erano oggetto di contestazione nel capo di imputazione esclusivamente i rapporti anali posti in essere "dal settembre 2017". Del pari, la Corte d'appello, nel rigettare l'eccezione di nullità sollevata dalla difesa, in virtù del rilievo secondo il quale il capo di imputazione aveva ad oggetto fatti commessi nei riguardi di un minore di anni 14, avrebbe omesso di considerare che il tempus commissi delicti si valuta in relazione dalla data del commesso reato e non all'età della vittima, per altro soggetta, nel caso di specie, a variazione a seconda che si preda in considerazione l'età naturale o quella anagrafica. 2.3. In terzo luogo, si deducono la violazione dell'art. 609-ter c.p.p., comma 1, nn. 1) e 5-sexies), nonchè vizi di motivazione. Secondo la difesa, la totale inattendibilità della vittima rispetto all'inizio dei toccamenti avrebbe dovuto impedire l'applicazione dell'aggravante dell'aver commesso il fatto nei confronti di un soggetto minore di anni 14 (n. 1). Del pari, il grave pregiudizio subito dalla minore (n. 5-sexies), sarebbe stato presuntivamente supposto dal giudice, in assenza di perizia, unicamente in virtù dello stato di malessere rappresentato dalla vittima in alcuni frammenti del proprio diario personale, sebbene la stessa, interrogata sul punto dagli organi inquirenti, avesse giustificato tale disagio con motivi diversi dagli abusi subiti dal padre e avesse confermato l'assenza di problemi fisici di qualunque natura (pag. 42 incidente probatorio). 2.4. Con un quarto motivo di doglianza, si lamentano la violazione dell'art. 62-bis c.p. e vizi di motivazione, sul rilievo che i criteri impiegati dal giudice per escludere il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e, segnatamente, la reiterazione dei fatti, l'irreparabilità del danno inferto alla minore e il contesto ambientale compromesso, essendo già compresi nelle aggravanti specifiche applicate e nella disciplina della continuazione, anch'essa riconosciuta, non avrebbero potuto essere oggetto di un secondo apprezzamento. L'ulteriore argomentazione impiegata dal giudice per escludere il riconoscimento di dette circostanze, relativa al fatto che la cessazione delle condotte abusive fosse avvenuta solo in concomitanza alla scoperta, da parte dell'imputato, dello svolgimento delle indagini a carico del medesimo, sarebbe in aperto contrasto con le risultanze processuali ed in particolar modo con le intercettazioni telefoniche, dalle quali si evincerebbe, diversamente, che i rapporti sessuali erano terminati in epoca precedente all'apertura delle indagini. In ogni caso, la Corte territoriale avrebbe pretermesso la valutazione di una serie di elementi positivi evidenziati dalla difesa in sede di gravame, il cui esame avrebbe potuto condurre ad una statuizione più favorevole, quali: lo stato di incensuratezza dell'imputato, le dichiarazioni confessorie e il pentimento manifestato dal medesimo, il disinteresse mostrato verso altri minori, il percorso terapeutico volontariamente intrapreso, il comportamento rispettoso delle prescrizioni del giudice e la regolare condotta di vita lavorativa e familiare fino al 2015. 2.5. Con un quinto motivo di ricorso, si lamentano la violazione dell'art. 609-nonies, c.p., artt. 202 e 203 c.p.p., nonchè vizi di motivazione, in quanto la Corte d'appello avrebbe motivato l'applicazione della misura sicurezza ex art. 609-nonies c.p., comma 3, per la durata di due anni in luogo della pena base di un anno prevista dalla disposizione, in ragione della gravità del reato e della reiterazione delle condotte, senza tuttavia indicare gli elementi fattuali e i criteri ex art. 133 c.p., da cui ha desunto la sussistenza di tali elementi e senza confrontarsi con taluni aspetti rappresentati dalla difesa, dimostrativi dell'assenza di pericolosità sociale in capo all'imputato, come l'incensuratezza del medesimo, l'assenza di attenzioni verso altri minori, il mancato rinvenimento nel computer dello stesso di materiale a carattere pedopornografico, la volontaria sottoposizione ad un programma terapeutico. 2.6. Infine, si deducono la violazione degli artt. 75,182 e 300 c.p.c. e art. 74 c.p.p., art. 76 c.p.p., comma 2, art. 77 c.p.p., art. 80 c.p.p., comma 1, nonchè vizi di motivazione. Si contesta la sentenza nella parte in cui il giudice ha riconosciuto il risarcimento del danno nei confronti dell'avv. M., in qualità di curatrice e rappresentante della minore, e nella parte in cui ha condannato il prevenuto al pagamento delle spese di lite sostenute dalla medesima quale rappresentante della persona offesa. Nel dettaglio, secondo la difesa, la revoca, da parte del Tribunale per i minorenni, della nomina di curatrice dell'avv. M. e la contestuale reintegrazione della madre della vittima nella responsabilità genitoriale, intervenuti nel corso del giudizio di appello, avrebbero comportato la sopravvenuta carenza di legittimazione della curatrice e il conseguente onere della madre della vittima di costituirsi parte civile in rappresentanza degli interessi della figlia. Sollevata dalla difesa l'eccezione di esclusione della parte civile nel corso dell'udienza in appello del 18 novembre 2019 - eccezione rispetto alla quale non vi era stata contestazione da parte di entrambi i procuratori delle parti civili - le due argomentazioni impiegate dalla Corte territoriale per sostenere l'ultrattività degli effetti della costituzione della parte civile sarebbero del tutto illogiche. Infatti, sotto un primo profilo, il richiamo alla disciplina di cui all'art. 300 c.p.c., secondo la quale gli eventi che riguardano la perdita della, capacità di stare in giudizio producono effetti solo se dichiarata dalla parte interessata attraverso il suo procuratore, fermo restando un formale provvedimento di revoca del curatore da parte del Tribunale dei minorenni, sarebbe inconferente sia perchè tale norma riguarda l'istituto dell'interruzione, estraneo al processo penale, sia perchè la giurisprudenza di legittimità (Sez. 6 n. 26870 del 30/03/2017, rv. 270411) ha chiarito che, in mancanza di rinnovazione, la costituzione di parte civile conserva la sua efficacia "in assenza di dichiarazioni a riguardo dal difensore e di iniziative delle controparti", così implicitamente consentendo non solo al difensore della parte civile, ma anche alle altre parti di eccepire il difetto di legittimazione attiva o la perdita della capacità processuale. Diversamente, secondo la difesa, il giudice d'appello avrebbe dovuto assegnare un temine perentorio per la costituzione della persona a cui spettava la rappresentanza, a norma dell'art. 182 c.p.c.. Sotto un secondo profilo, sarebbe parimenti illogico il rilievo del giudice secondo il quale la persona offesa, in quanto soggetto minorenne impossibilitato a costituirsi in proprio, sarebbe rimasta priva di tutela in difetto di rinnovazione della costituzione da parte del rappresentante legale, in violazione del principio di immanenza ex art. 76 c.p.p., comma 2, dal momento che la persona offesa avrebbe potuto comunque far valere i propri diritti risarcitori in sede civile e che il richiamato principio di immanenza trova comunque un limite nel caso di sopravvenuta carenza di interesse ad agire. In data 26 settembre 2020, la difesa ha depositato una nota contenente una schermata del Tribunale dei minori da cui si ricaverebbe che il 15 gennaio 2019 la madre della vittima aveva attestato la responsabilità genitoriale sulla minore e un'attestazione del 22 settembre 2020 del Tribunale dei Minori di non presenza del fascicolo in archivio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 1.1 I primo motivo di doglianza, relativo all'errata qualificazione della condotta posta in essere dall'imputato, è infondato. Deve rilevarsi che l'art. 609-bis c.p., comma 2, punisce chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; l'art. 609-quater c.p., al comma 1, sottopone alla stessa pena dell'art. 609-bis chiunque, al di fuori delle ipotesi ivi previste, compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto non ha compiuto gli anni quattordici (n. 1), ovvero gli anni sedici quando il colpevole sia l'ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che abbia con quest'ultimo una relazione di convivenza (n. 2); mentre al comma 2 punisce, con la reclusione da tre a sei anni, questi ultimi soggetti quando, con l'abuso dei poteri connessi alla loro posizione, compiono atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici. La giurisprudenza ha chiarito che, mentre nella violenza sessuale ex art. 609-bis c.p., comma 2, l'eventuale consenso della persona offesa è viziato, non solo per le condizioni di inferiorità psichica della stessa ma anche per la condotta di induzione, per tale intendendosi l'attività di persuasione del minore nel compiere o subire la prestazione sessuale, nel reato ex art. 609-quater c.p., il consenso del minore è viziato solo dalla condizione di inferiorità dovuta all'età della vittima, senza che vi sia l'induzione. Si è quindi osservato che, per escludere la configurabilità del reato di violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, non è sufficiente che la persona con la quale è intercorso il rapporto sessuale abbia acconsentito a compiere o a subire l'atto sessuale, ma è necessario accertare se tale consenso non si configuri quale conseguenza di una strumentalizzazione della inferiorità della vittima da parte dell'autore del fatto, che abbia sfruttato le condizioni di minorata capacità di resistenza o di comprensione della natura dell'atto da parte del soggetto passivo mediante una condotta di induzione, consistente nel convincimento della minore a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto, e di abuso che si verifica quando le condizioni di menomazione - che possono dipendere sia dal limitato processo evolutivo, mentale e culturale sia dalla minore età accompagnata da una compromessa situazione individuale - sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in una situazione precaria, viene ridotta a mezzo per soddisfare l'altrui libidine (ex plurimis, Sez. 3, n. 52041 del 11/10/2016, Rv. 268615; Sez. 3 n. 20766 del 14/04/2010, Rv. 247654). Dunque, deve essere fatto rientrare nella categoria dell'induzione mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima il procedimento di graduale "sessualizzazione" operato nel tempo da un soggetto in posizione di dominio, allo scopo di condizionarne la libertà. Alla luce di tali considerazioni, nel caso di specie, la sussunzione della condotta posta in essere dall'imputato sotto l'alveo dell'art. 609-bis c.p., comma 2, risulta immune dai denunciati vizi, dal momento che, come ben evidenziato in entrambi i gradi di merito, il consenso della minore al compimento degli atti sessuali risultava "viziato" non solo dalla tenera età della stessa, ma anche dalla condotta induttiva esercitata dal padre, consistita in una morbosa opera di persuasione e nella volontaria strumentalizzazione della condizione di vulnerabilità della figlia adottiva. Infatti, dalle dichiarazioni della stessa minore, ritenute dai giudici chiare, coerenti e lineari, è emerso che l'imputato, approcciandosi alla stessa in modo incessante e graduale dapprima con dei palpeggiamenti al di sopra dei vestiti, poi con dei toccamenti delle parti intime, poi con vere penetrazioni, ha alimentato la convinzione della medesima circa la doverosità e la normalità di tali comportamenti sessuali. Le censure difensive relative alla presunta contraddittorietà dalla persona offesa riguardo l'inizio dei rapporti sessuali, incentrate sul contenuto di una s.i.t., sono state puntualmente smentite dalla Corte d'appello, la quale ha correttamente affermato che gli elementi probatori acquisiti, e in particolar modo la lettura congiunta delle dichiarazioni rilasciate dalla minore in sede di s.i.t. e nel corso dell'incidente probatorio, consentivano di ritenere provato con sufficiente grado di certezza il tempo di commissione degli abusi, collocati, quanto ai palpeggiamenti e alle esplorazioni del corpo e delle parti intime, quando la minore frequentava la quarta elementare, quanto alle penetrazioni, nell'anno 2016. Va comunque rilevato, come già ben evidenziato dal giudice di secondo grado, che nè l'asserita interruzione dei palpeggiamenti per volontà della vittima nè tantomeno lo iato temporale intercorrente tra tali condotte e le penetrazioni, depongono nel senso preteso dalla difesa, in quanto non dimostrano affatto la (quantomeno) sopravvenuta capacità della vittima di prestare un valido consenso al compimento dei rapporti; anzi, il primo dato prova, più che una volontà indipendente dall'abuso e dall'induzione, il disperato bisogno nonchè il vano tentativo della vittima di interrompere tali rapporti; il secondo dato, si pone a ulteriore conferma della sussistenza della progressiva opera di sessualizzazione della minore, ormai sottoposta alle richieste del padre e quasi incapace di rifiutarlo. Quanto alla condizione di vulnerabilità della vittima, secondo la coerente valutazione dei giudici di merito essa derivava non solo dall'età della stessa e dal difficile contesto familiare e ambientale originario, ma anche dal convincimento della minore di contribuire, attraverso l'accettazione degli abusi, all'equilibrio familiare. Sul punto, deve rilevarsi che la circostanza evidenziata dalla difesa relativa al fatto che la finalizzazione dei rapporti sessuali alla salvaguardia dell'unità familiare fosse un'autoconvinzione della vittima non ingenerata dal padre, è del tutto priva di pregio, dal momento che, quand'anche ciò fosse vero, il solo fatto che la minore, per il tipo di rapporti sussistenti con il padre, avesse maturato una simile convinzione è di per sè manifestazione delle gravissime conseguenze che l'induzione abusante del padre aveva già causato sulla personalità ed è indice inequivocabile del fatto che la violenza sia stata accompagnata da un abuso che ha determinato nella minore una compromissione della libertà di autodeterminazione tale da assecondare, come fossero normali, le richieste sessuali provenienti padre. Del resto, il giudice di secondo grado ha evidenziato che lo stato di assoluta devastazione psicologica in cui versava la minore emergeva dei racconti della medesima alla confidente e dal tenore delle riflessioni contenute in diversi frammenti del proprio diario personale, nelle quali aveva definito "inferno" il proprio ambiente familiare e aveva manifestato uno stato di sofferenza e di disprezzo nei confronti della vita, non comune tra soggetti di giovane età. Correttamente, dunque, il giudice ha ritenuto che, in un siffatto contesto ambientale compromesso, il rifiuto manifestato dalla vittima verso certe tipologie di rapporti e il presunto rispetto da parte del padre di tale rifiuto fossero argomenti deboli sotto il profilo probatorio, che non consentivano di suppore ragionevolmente la capacità di comprensione della vittima della gravità degli atti subiti e la possibilità di questa di opporsi validamente agli abusi. Più in generale, deve osservarsi come la vulnerabilità della vittima rilevante ai fini della configurabilità dell'abuso della sua condizione di inferiorità vada valutata sul piano oggettivo, indipendentemente, cioè, dalle cause che l'hanno generata; con la conseguenza che il reato di violenza sessuale mediante induzione si configura anche nel caso dell'approfittamento di una condizione di vulnerabilità preesistente o comunque indipendente rispetto alla condotta del reo. 1.2. Il secondo motivo di ricorso, relativo alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza con riferimento agli atti sessuali anali commessi prima del 2017, è infondato. Deve rilevarsi che sussiste diversità del fatto, da cui discende la violazione del principio della correlazione tra l'imputazione contestata e la pronuncia solo quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità, nel senso che sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione e variazione dei contenuti essenziali dell'addebito, così da determinare un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio per il diritto della difesa dell'imputato (ex plurimis, Sez. 2, n. 12328 del 24/10/2018, dep. 20/03/2019, Rv. 276955; Sez. 6, n. 36003 del 14/06/2004, Rv. 229756). Alla luce di tali considerazioni, la censura del ricorrente non coglie nel segno, dal momento che la condanna del Tribunale, confermata dalla Corte di appello, risulta del tutto coerente con l'impostazione accusatoria, non avendo il giudice nè modificato il titolo del reato, nè condannato il ricorrente per un reato più grave di quello effettivamente realizzato. Nella specie, il ricorrente è stato condannato per il reato di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p., che comprendeva, come risulta dalla formulazione letterale del capo di imputazione, le condotte di palpeggiamento, poste in essere nel periodo temporale intercorrente tra 2013 al 2017 e le penetrazioni anali eseguite dal 2017 in poi. La sussistenza tanto dei primi quanto dei secondi atti sessuali non è mai stata oggetto di contestazione, essendo le argomentazioni difensive unicamente rivolte a contestare il tempo di commissione degli atti anali. Appare evidente, dunque, che una volta qualificate le condotte, nel loro complesso, quali violenza sessuale per induzione, l'eventuale accertamento circa l'inizio dei rapporti anali in un periodo successivo al compimento del sedicesimo anno di età, non avrebbe inciso sulla qualificazione giuridica del fatto di reato, nè avrebbe consentito di giungere ad pronuncia assolutoria per tali atti, atteso che l'operatività della scriminante per gli atti sessuali commessi, in assenza di abuso della qualifica di genitore, nei confronti di un soggetto maggiore di anni 16, presuppone la sussunzione della condotta sotto l'alveo della diversa fattispecie di atti sessuali con minore ex art. 609-quater c.p., comma 2, la cui configurabilità, nel caso di specie, è stata già esclusa con ampie argomentazioni. 1.3. Il terzo motivo di doglianza, con il quale si contesta l'applicazione delle circostanze aggravanti ex art. 609-ter, comma 1, nn. 1) e 5-sexies), è infondato. Deve premettersi che l'art. 609-ter c.p., comma 1, prevede un aumento di pena fino a un terzo di quella prevista dall'art. 609-bis c.p., se i fatti ivi previsti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici (n. 1) nonchè se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave (n. 5-sexies). Nel caso di specie, i giudici di merito hanno fatto buon governo di tale normativa. Dalla sentenza di secondo grado emerge, infatti, che l'aggravante dell'età inferiore agli anni 14 anni, si riferisce esclusivamente alla prima parte delle condotte abusive, ovvero ai toccamenti, che risalgono pacificamente al periodo in cui la minore frequentava la terza/quarta elementare. Quanto alla sussistenza del pregiudizio grave, essa è stata correttamente affermata, pur in assenza di perizia, in considerazione dell'indubbia compressione della libertà sessuale della minore derivante dalla protrazione nel tempo delle condotte abusive da parte del padre, nonchè del profondo stato di malessere manifestato dalla stessa alla confidente e in plurimi passaggi del proprio diario personale. 1.4. Il quarto motivo di ricorso, riferito all'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, è inammissibile. Com'è noto, il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche può essere fondato anche sull'apprezzamento di un singolo dato negativo, oggettivo o soggettivo, che il giudice consideri prevalente rispetto agli altri, come la gravità del fatto, la serialità dei comportamenti ed i precedenti penali dell'imputato, così da formulare, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità dell'imputato (ex plurimis, sez. 2, n. 15970 del 27/03/2020). In linea con tale orientamento, nel caso di specie, il giudice ha motivato l'omesso riconoscimento delle richieste circostanze in ragione della gravità degli abusi commessi, della loro reiterazione nel tempo, nonchè del compromesso contesto ambientale e familiare nel quale essi si sono verificati. Per converso, privi di pregio, ai fini di tale giudizio, risultano gli ulteriori elementi indicati dalla difesa relativi all'assenza di interessi per altri minori, alla volontaria sottoposizione ad un programma terapeutico e all'asserita spontanea cessazione delle condotte in un momento precedente alla scoperta delle indagini; circostanza, quest'ultima, anche smentita dalle dichiarazioni della persona offesa. Quanto, infine, alle presunte dichiarazioni confessorie dell'imputato, trattasi di un elemento che è stato già valutato dal giudice di secondo grado ai fini della riduzione della pena complessivamente irrogata dal giudice di prima istanza. 1.5. Il quinto motivo di doglianza, con il quale si deduce il vizio di motivazione in merito all'applicazione della misura di sicurezza ex art. 609-nonies c.p., comma 3, è inammissibile. La L. n. 172 del 2012, ha introdotto, nell'art. 609-nonies c.p., accanto alle pene accessorie, di cui ai primi due commi, conseguenti alla condanna penale per uno dei reati sessuali ivi espressamente indicati, un comma 3 che contempla tre misure di sicurezza afferenti a restrizioni nella libera circolazione, ovvero nello svolgimento di attività comportanti contatti con minori, ovvero ancora obblighi di comunicazione nei confronti degli organi di polizia, applicabili in conseguenza di condanna per reati sessuali che, rispetto a quelli di cui ai primo due commi, risultano o connotati da una particolare gravità o comunque commessi ai danni di minori. Trattandosi di misure la cui applicazione consegue obbligatoriamente alla pronuncia della sentenza di condanna, non grava in capo al giudice alcun pregnante onere motivazionale ogni qualvolta siano contenute nel minimo edittale, mentre è sufficiente una motivazione sintetica, che faccia riferimento ad uno qualunque dei criteri di commisurazione della pena, qualora il giudice intenda discostarsi dal minimo. Nel caso di specie, la sentenza impugnata risulta immune dalle lamentate censure anche su questo aspetto, dal momento che il giudice di secondo grado, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, ha ritenuto congrua l'applicazione della misura per la durata di due anni in ragione della gravità del reato commesso e della reiterazione delle condotte. Viceversa, essendo costituito, il parametro cui commisurare l'entità pena, dai soli elementi enucleati dall'art. 133 c.p., nessuna incidenza assumono gli aspetti rappresentati dalla difesa per escludere la pericolosità sociale del ricorrente, relativi all'assenza di interesse verso altri minori o alla volontaria sottoposizione ad un programma terapeutico. 1.6. Il sesto motivo, con il quale si deduce la sopravvenuta carenza di legittimazione ad agire della curatrice speciale della minore, è infondato. Deve premettersi che la giurisprudenza di legittimità, affrontando la questione relativa alla necessità per gli eredi, in caso di morte del de cuius costituitosi parte civile, di rinnovare la costituzione nel processo penale, ha chiarito che alla morte della parte civile non conseguono gli effetti della revoca tacita nè quelli interruttivi del rapporto processuale previsti dall'art. 300 c.p.c., inapplicabili al processo penale, ispirato all'impulso d'ufficio, con la conseguenza che la costituzione della defunta parte civile resta valida ex tunc e gli eredi possono intervenire nel processo semplicemente dimostrando di essere tali. E ciò perchè l'immanenza viene meno solo nel caso di revoca espressa, proveniente dal soggetto rappresentato, ovvero nei casi di revoca implicita, che non possono essere estesi al di là di quelli tassativamente previsti dall'art. 82 c.p.p., comma 2, relativi all'omessa presentazione, nel corso del giudizio di primo grado, delle conclusioni scritte a norma dell'art. 523 c.p.p. ovvero all'esercizio dell'azione in sede civile (ex multis, Sez. 5, n. 23676 del 19/05/2005; Sez. 3, n. 17054 del 13/12/2018, Rv. 275904; Sez. 5, n. 23676 del 19/05/2005, Rv. 231911). Nel caso di specie, la difesa argomenta che l'intervenuta revoca della nomina di curatrice speciale della minore e la reintegrazione della madre di questa nella potestà genitoriale, comportavano l'onere di quest'ultima di ricostituirsi in qualità di rappresentante della figlia e, in mancanza di spontanea costituzione, l'onere del giudice, a seguito dell'eccezione presentata dalla difesa nel corso dell'udienza, non contestata dai procuratori delle parti civili, di assegnare un termine perentorio per tale costituzione, non trovando applicazione le norme del codice di procedura civile richiamate dalla Corte d'appello, e non potendo operare il principio di immanenza, che non può prescindere dalla sussistenza dell'interesse ad agire in capo al soggetto che aveva la rappresentanza. La censura difensiva è priva di fondamento, oltre che sprovvista di adeguato supporto probatorio. Deve infatti ritenersi che, conformemente alla giurisprudenza appena richiama, gli effetti della costituzione di parte civile in capo alla curatrice speciale della minore permangano, non sussistendo alcun automatismo tra la revoca della stessa il subentro della madre nella rappresentanza della minore, dal momento il richiamato del principio di immanenza ex art. 76 c.p.p., esclude, in assenza di revoca espressa o comunque di dichiarazioni in tal senso provenienti da parte del soggetto interessato, nonchè in mancanza di valide istanze proposte dalla difesa, la necessità di una nuova costituzione. Va precisato, quanto al primo aspetto, che l'interesse alla rappresentanza in capo alla minore permaneva e permane nella sua interezza, indipendentemente dalla possibilità di reiterare le proprie pretese risarcitorie in sede civilistica. Sotto il secondo profilo, che non può trovare applicazione, in virtù del richiamato principio dell'impulso d'ufficio cui si ispira il processo penale, il principio di non contestazione, sicchè, diversamente da quanto sostiene la difesa, il fatto che entrambi i procuratori delle parti civili non avessero contestato l'eccezione di esclusione della curatrice sollevata dalla difesa, non costituiva implicita conferma della perdita della capacità processuale stessa, specie laddove si consideri che tale eccezione era stata proposta oralmente nel corso dell'udienza di appello del 18 novembre 2019. Per converso, sussisteva il preciso del ricorrente di allegare all'istanza di esclusione di parte civile, il decreto di revoca della nomina di curatrice emesso dal Tribunale dei minorenni in data anteriore a quella dell'udienza. Tale adempimento, infatti, non può definirsi assolto ex post per il mero deposito di una nota allegata al ricorso per cassazione, in quanto, per un verso, essa consiste nella stampa di una schermata che non consente di desumere che la curatrice speciale sia stata revocata in data 15 gennaio 2019. Per altro verso, l'attestazione di non presenza del fascicolo non assume l'efficacia dirimente pretesa dalla difesa, in quanto la stessa è datata 22 settembre 2020 e non esclude, dunque, che il fascicolo fosse presente prima dell'udienza di appello nella quale fu sollevata l'eccezione; cosicchè il ricorrente avrebbe dovuto procurarsi il documento prima di tale udienza o comunque chiarire, già in quella sede, l'impossibilità di produrre il fascicolo perchè mancante. Risulta in ogni caso assorbente il rilievo che il soggetto in capo al quale va individuato l'interesse civilistico fatto valere nel giudizio penale è il rappresentato e non il rappresentante; con la conseguenza che, qualora - come nel caso di specie - il rappresentato non sia mai venuto meno e vi sia stato - a voler seguire l'ipotesi difensiva, in realtà sfornita di prova - un mero avvicendamento dei rappresentanti, il giudizio procede comunque nei confronti del rappresentato, senza bisogno di nuova costituzione di parte civile. 2. Per tali motivi, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione di quelle sostenute dalle parti civili, che devono essere liquidate in complessivi Euro 1500,00, oltre accessori di legge, per F.A., che non risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e liquidate dalla corte di appello con separato decreto di pagamento nei confronti della parte civile V.H., ammessa al patrocinio a spese dello Stato. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile F.A., che liquida in complessivi Euro 1500,00, oltre accessori di legge. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte d'appello di Roma con separato di decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Si dà atto che, ai sensi dell'art. 546 c.p.p., comma 2, conformemente alle indicazioni contenute nel decreto del Primo Presidente, n. 163/2020 del 23 novembre 2020 - recante "Integrazione linee guida sulla organizzazione della Corte di cassazione nella emergenza COVID-19 a seguito del D.L. n. 137 del 2020" - la presente ordinanza viene sottoscritta dal solo presidente del collegio per impedimento dell'estensore. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2020. Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2021
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