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Reati contro la persona

Violenza sessuale: non c'è continuazione in caso di più atti sessuali, non intervallati tra loro da un apprezzabile periodo di tempo

Violenza sessuale

Cassazione penale sez. III, 25/09/2018, (ud. 25/09/2018, dep. 12/12/2018), n.55481

In tema di violenza sessuale, il compimento di plurimi atti sessuali, non intervallati tra loro da un apprezzabile periodo di tempo, integra un unico reato e non più reati unificati dal vincolo della continuazione.

Violenza sessuale: non c'è continuazione in caso di più atti sessuali, non intervallati tra loro da un apprezzabile periodo di tempo

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 22 novembre 2017, la Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza del Giudice dell'Udienza preliminare del Tribunale della medesima città, con la quale A.I.M. era stato condannato, all'esito del giudizio abbreviato, in relazione al reato di cui all'art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis cod. pen., con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la circostanza di cui all'art. 62 c.p., n. 6, e la diminuente per il rito abbreviato, alla pena sospesa di anni due di reclusione, pene accessorie di legge. L'imputato è stato ritenuto responsabile del reato di violenza sessuale perchè, con minaccia di fare intervenire i suoi amici se non avesse acconsentito a rapporti sessuali non protetti e con violenza, prendendo H.E. violentemente per un braccio e mettendole una mano sulla testa per avvicinarla al suo pene, la costringeva ad un rapporto sessuale orale e uno vaginale, contro la volontà espressa della persona offesa. 1.1. In particolare, il giudice di secondo grado ha confermato la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove operata dal Giudice dell'Udienza preliminare del Tribunale di Bologna, nonchè la solidità del compendio probatorio posto a base della sentenza di primo grado, costituito dalle dichiarazioni della persona offesa, rese in sede di denuncia ai Carabinieri, presentata nell'immediatezza dei fatti alle ore 3,30 del (OMISSIS), e da quelle successivamente rese, in data (OMISSIS), che avevano trovato conferme in altre fonti testimoniali. In estrema sintesi, la persona offesa aveva dichiarato di aver pattuito una prestazione sessuale protetta con l'imputato al prezzo di Euro 20,00 e che, dopo la prestazione a pagamento, l'imputato aveva insistentemente chiesto un rapporto sessuale non protetto e al suo netto rifiuto aveva dapprima iniziato a minacciarla e, poi, le aveva afferrato un braccio per trattenerla e l'aveva costretta ad avere un rapporto sessuale orale e poi vaginale completo senza alcuna protezione. La persona offesa aveva chiesto immediato aiuto ad un'amica, tramite invio di SMS, a cui aveva raccontato l'accaduto; l'amica aveva poi confermato il racconto agli inquirenti, infine la persona offesa si era recata presso il pronto soccorso dell'ospedale cittadino ove avevano eseguiti accertamenti di rito. Il racconto della parte lesa aveva, poi, trovato conferma nelle dichiarazioni testimoniali dell'amica di costei, a cui aveva chiesto aiuto, chiamandola al telefono, e alla quale aveva inviato un SMS nel quale era riportata la targa dell'autovettura a bordo della quale era avvenuta la violenza sessuale, e nel referto medico di pronto soccorso che attestava la presenza di spermatozoi nel tampone vaginale, il cui profilo genetico era compatibile con l'imputato, infine, nel rinvenimento nel luogo teatro dei fatti di un profilattico integro. Secondo i giudici di merito, alcun dubbio sussisteva in relazione all'attendibilità della persona offesa, dirimente era, infatti, la circostanza che il tampone vaginale aveva rilevato tracce biologiche compatibili con il profilo genetico dell'imputato, che confermavano il racconto della persona offesa di essere stata costretta a subire un rapporto sessuale non protetto, e smentiva la tesi difensiva dell'unico rapporto sessuale a pagamento. Esclusa la circostanza di cui all'art. 609 bis c.p., comma 3, ritenuta corretta la determinazione della pena, come applicata, anche con riguardo all'aumento per la continuazione interna, la Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza di primo grado. 2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1: 2.1. Con il primo motivo deduce la violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla illogicità e contraddittorietà della motivazione sulla valutazione dell'attendibilità della persona offesa, violazione della legge in relazione all'art. 192 cod. proc. pen.. Sostiene il ricorrente che la Corte d'appello avrebbe acriticamente condiviso le conclusioni del giudice di primo grado non avendo valutato le plurime circostanze evidenziate nell'atto di appello che avrebbero minato l'attendibilità della persona offesa. In tale contesto, rileverebbe la divergenza e contraddittorietà delle dichiarazioni rese in sede di denuncia e quelle rese successivamente, e la compatibilità di queste con il tenore dei messaggi (che vengono integralmente riportati nel ricorso) e con quanto accertato nel referto medico che aveva evidenziato l'assenza di segni di arrossamento, escoriazioni ed ecchimosi. 2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all'art. 81 c.p., comma 2. La Corte d'appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistenti due condotte distinte integranti due distinti reati di violenza sessuale ed avrebbe così erroneamente applicato la disciplina della continuazione, laddove in considerazione del breve lasso di tempo trascorso tra i due episodi e l'assenza di una programmazione criminosa in capo all'imputato, avrebbe dovuto considerare un'azione giuridicamente unitaria ed un solo reato di violenza sessuale. 2.3. Con il terzo motivo deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) in relazione all'omissione, nel dispositivo di sentenza, dell'indicata continuazione; il contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza comporterebbe il vizio di violazione dell'art. 125 c.p.p., comma 3. 2.4. Con il quarto motivo deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione al diniego di riconoscimento del fatto di minore gravità ai sensi dell'art. 609 bis c.p.p., comma 3, non avendo, la Corte d'appello, valutato le circostanze indicate nell'atto di impugnazione che ne individuavano la sussistenza, dovendo aver riguardo non tanto alla quantità di violenza, bensì alla qualità dell'atto compiuto alla luce dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen.. 2.5. Con il quinto motivo deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all'art. 133 c.p., comma 2, n. 3, art. 62 bis cod. pen. e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio. La Corte d'appello avrebbe applicato una riduzione, ex art. 62-bis cod. pen., in misura inferiore ad un terzo e non avrebbe assolto all'onere di motivazione in relazione alla conferma della pena irrogata. 3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 4. Il ricorso appare fondato con riguardo al secondo motivo e il suo accoglimento comporta la rideterminazione del trattamento sanzionatorio ad opera della Corte di cassazione. Nel resto il ricorso è inammissibile attesa la manifesta infondatezza e genericità dei motivi. 5. Quanto al primo motivo attinente al merito dell'affermazione di responsabilità, esso appare inammissibile con riguardo alla violazione della legge di cui all'art. 192 cod. proc. pen., e manifestamente infondato con riguardo al vizio di motivazione. Va anzitutto rilevato che, in tema di valutazione della prova testimoniale, l'attendibilità della persona offesa dal reato è una questione di fatto, rispetto alla quale non può prospettarsi la violazione della legge processuale, essendo riconducibile la stessa nell'alveo del vizio di motivazione, e pertanto la valutazione dell'attendibilità della persona offesa può essere esaminata, in sede di legittimità entro i limiti dell'illogicità, contraddittorietà e carenza della motivazione (Sez. 2. n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575). E' pacifica affermazione, nella giurisprudenza, soprattutto allorquando la testimonianza della persona offesa sia la principale - se non esclusiva - fonte del convincimento del giudice, che il giudizio di attendibilità, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, non è sindacabile in sede di legittimità, allorquando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (Sez. 7, n. 12406 del 19/02/2015, Miccichè, Rv. 262948; Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578). In definitiva, l'attendibilità di un teste è una questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell'insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni, illogicità o carenze argomentative, che con riguardo al caso concreto non si rinvengono. Parimenti, deve ricordarsi, quanto al vizio di motivazione, denunciabile ex art. 606 cod. proc. pen., che non sono consentite nel giudizio di legittimità le censure concernenti la ricostruzione e la valutazione del fatto, come pure l'apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito. A tale proposito va rimarcato che la Corte di cassazione è giudice della motivazione del provvedimento impugnato e non giudice delle prove acquisite nel corso del procedimento, da cui l'inammissibile doglianza del primo motivo di ricorso che mira a sollecitare, attraverso la trasposizione nel ricorso del contenuto degli SMS e delle dichiarazioni della persona offesa, un sindacato sulle prove piuttosto che ad individuare un deficit del percorso argomentativo denunciabile sotto il profilo della manifesta illogicità e/o contraddittorietà. 6. A tal proposito, la sentenza impugnata poggia su un solido apparato argomentativo ed è fondata sugli elementi probatori presenti nell'orizzonte cognitivo del giudice (cfr. par. 1.1. del ritenuto in fatto), nel quale le dichiarazioni della persona offesa, di per sè già idonee a fondare la responsabilità penale all'esito del positivo vaglio di attendibilità della dichiarante, hanno trovato precisi riscontri nelle dichiarazioni rese dall'amica, contattata tramite messaggio SMS con richiesta di aiuto, che l'aveva invitata a rilevare il numero di targa dell'autovettura a bordo della quale era avvenuta la violenza sessuale, cosa poi avvenuta, e a recarsi a fare denuncia, nonchè dal referto medico in atti e dall'accertamento sul tampone vaginale che aveva rilevato la prova di materiale biologico avente il profilo genetico dell'imputato, circostanza che smentiva la tesi difensiva di un rapporto sessuale protetto a pagamento. Congruamente è spiegata la discrepanza tra le dichiarazioni della persona offesa in relazione al racconto di due rapporti sessuali non consenzienti, come precisato in sede di sommarie informazioni testimoniali, discrepanza che trovavano, secondo la corte territoriale, ragionevole spiegazione nel fatto che la donna non era stata compresa nell'immediatezza della denuncia a causa della situazione psicologica. Allo stesso modo, è stata spiegata la divergenza sui tempi della commissione della violenza sessuale, alla luce degli SMS inviati e ricevuti, il cui orario è stato ritenuto compatibile con i tempi del racconto della parte lesa. Consegue la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso. 7. Il secondo motivo di ricorso è fondato e il suo accoglimento comporta l'annullamento della sentenza in relazione al ritenuto reato continuato, con conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio ad opera della Corte di cassazione. Conseguentemente il terzo motivo è assorbito dall'accoglimento del secondo motivo ad esso collegato. La Corte d'appello ha ritenuto configurabile il reato continuato in presenza di due rapporti sessuali non consenzienti. Secondo il giudice del merito, la persona offesa, seppur in rapida successione, fu costretta a subire un rapporto orale e uno vaginale. Trattasi di due condotte distinte di violazione della legge penale integranti due reati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Tale conclusione non è condivisibile ed è contraria al dato normativo e agli approdi di Questa Corte di legittimità. L'art. 609 bis cod. pen. impone all'interprete di valutare, ai fini della condotta materiale del reato, "gli atti sessuali". Già il tenore letterale della norma indirizza l'interprete nel senso che il giudice deve valutare "tutti gli atti sessuali" posti in essere, che compongono la condotta di reato e che configurano un unico reato. Ben inteso, la contestualità del compimento di atti sessuali, anche di diversa tipologia o la reiterazione del medesimo, costituisce connotato essenziale implicitamente richiesto dalla norma, e ne costituisce un limite, al di fuori del quale è configurabile il reato continuato. E' stato, infatti, ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, che il compimento di atti sessuali tra loro intervallati da un apprezzabile periodo di tempo, non integra un unico reato, bensì plurimi reati unificati dal vincolo della continuazione (Sez. 3, n. 44424 del 09/11/2011, S., Rv. 251614; Sez. 3, n. 45970 del 09/11/2005, A., Rv. 232538). Se gli atti sessuali non vengono posti in essere in unico contesto temporale, ma intercorre un apprezzabile periodo di tempo fra i vari episodi, viene a configurarsi una cesura tra i singoli fatti, ognuno dei quali è caratterizzato dalla ripresa dell'azione violenta/minacciosa in danno della vittima, con conseguente ravvisabilità del vincolo della continuazione. Nel caso in esame, risulta dalla sentenza impugnata che il rapporto sessuale completo era stato perpetrato subito dopo il rapporto orale, in un contesto di progressione della minaccia e violenza, sicchè non configurandosi quella cesura temporale indicata dalla giurisprudenza, il reato è unico. Consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio in relazione alla ritenuta continuazione di reati e deve essere eliminato il quantum di pena applicato in aumento che, secondo quanto indicato nella sentenza di primo grado, è pari a mesi cinque e giorni 10 di reclusione (mesi otto di reclusione ridotto per la diminuente per il rito abbreviato). La pena, dunque, può essere determinata, ai sensi dell'art. 620 cod. proc. pen., dalla Corte di cassazione nella misura di anni uno e mesi sei e giorni 20 di reclusione. 8. Manifestamente infondata è anche la doglianza in merito al diniego di riconoscimento del fatto di minore gravità ai sensi dell'art. 609-bis c.p., u.c.. Con riguardo al diniego di riconoscimento del fatto di minore gravità, la Corte d'appello correttamente ne ha escluso la ricorrenza sul rilievo che la gravità dei fatti in ragione della tipologia degli stessi (due rapporti sessuali commessi in successione temporale) che avevano compromesso in modo grave la libertà della vittima, a nulla rilevando che ella si prostituisse. Motivazione che è congrua, non appare illogica e/o contraddittoria ed è rispettosa dei principi da ultimo affermati in tema che questa Corte (Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015 P.G. in proc. D., Rv. 266272; Sez. 3, n. 21623 del 15/04/2015, K., Rv. 263821), a fronte della quale il ricorrente lamenta una mancanza di adeguata motivazione che tenga conto dell'intero contesto del fatto e delle condizioni personali della vittima, motivazione che la corte territoriale ha pienamente assolto. 9. Anche il quinto motivo di ricorso è manifestamente infondato. La Corte d'appello ha pienamente assolto all'onere motivazionale sul trattamento sanzionatorio, in applicazione dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen., muovendo dalla pena base fissata nel limite minimo edittale, con diminuzione quasi nella massima estensione delle circostanze di cui all'art. 62 bis cod. pen.. La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se fissata al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. Allo stesso modo il giudicante non è tenuto a specifica motivazione con riferimento al quantum di riduzione della pena per effetto del riconoscimento di circostanze attenuanti, potendo fare ricorso a richiami a formule sintetiche, tanto più se la diminuzione è prossima al massimo di un terzo (Sez. 4, n. 54966 del 20/09/2017, Romagnoli, Rv. 271524). P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al riconoscimento della continuazione che esclude, e ridetermina la pena in anni uno, mesi sei e giorni 20 di reclusione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 25 settembre 2018. Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018
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