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Atti persecutori e violenza privata: il principio di assorbimento nel reato continuato (Giudice Antonio Palumbo)

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Tribunale Napoli sez. VI, 02/11/2022, (ud. 10/10/2022, dep. 02/11/2022), n.9207

Il reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p. si configura attraverso una pluralità di condotte reiterate che, generando uno stato di ansia e paura nella persona offesa, ne condizionano le scelte e comportano una modificazione delle abitudini di vita. Tali condotte possono assorbire altre fattispecie criminose, come la violenza privata, se queste sono parte integrante del disegno persecutorio unitario dell’imputato.

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La sentenza integrale

Svolgimento del processo
L'imputato in epigrafe è stato tratto con due distinti decreti che hanno dato origine a due diversi procedimenti, poi riuniti, innanzi al giudizio del Tribunale di Napoli - in composizione monocratica - per rispondere dei reati ascrittigli.

Dopo due rinvii, per ragioni procedurali, all'udienza del 10 maggio 2021 si procedeva alla riunione del proc. pen. n. 1947/21 Trib, e su richiesta della difesa il dibattimento era rinviato al 14 giugno 2021.

Medio tempore, per esigenze organizzative interne connesse all'emergenza pandemica, il dibattimento era, con provvedimento a parte, poi rinviato al 3 gennaio 2022 e da lì al 6 giugno 2022 dove, una volta esaurite le questioni preliminari, era aperto e le parti avanzavano le rispettive richieste di mezzi di prova che il Collegio, valutatene la pertinenza e rilevanza ai fini della decisione, accoglieva nei sensi e limiti di cui all'ordinanza dettata a verbale acquisendo la documentazione prodotta dal P.M.

In quella sede si procedeva all'esame dei testi GE. An. e CI. Pa. con rinvio, all'esito, all'udienza odierna. Oggi si concludeva l'istruttoria dibattimentale sicché il Giudice, una volta raccolte le conclusioni delle parti nei sensi di cui in premessaci ritirava in Camera di Consiglio per la decisione.

Motivi della decisione
Rileva il Giudicante che, alla luce delle risultanze istruttorie affatto univoche nel senso della fondatezza dell'asserto accusatorio, debba essere affermata, con le precisazioni che si vedranno, la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato ascrittogli che è risultato integrato in tutti i suoi elementi ontologici e strutturali.

Va però premesso che, come emerge chiaramente dalla mera lettura degli atti, il punto di abbrivo ed al tempo stesso il traguardo dell'impostazione accusatoria trova la sua scaturigine nelle dichiarazioni rese, anche in dibattimento, dalla persona offesa, GE. An. sicché si ripropone, in questa sede, l'annoso dibattito in ordine alla valenza - sostanziale e processuale - da attribuire alle "accuse" provenienti dalla "vittima" del delitto per cui si procede.

Orbene è noto che per costante orientamento giurisprudenziale della S.C. - cfr. per tutte Cass. Pen. Sez. IV 21 giugno - 10 agosto 2005 n. 30422 e Sez. III 18/7/12 n. 253688 - la deposizione della persona offesa dal reato può essere assunta, anche da sola, a fondamento della pronuncia di colpevolezza dell'imputato a condizione però che essa abbia resistito, vittoriosamente, ad un rigoroso vaglio critico da parte del Giudice.

Siffatta penetrante disamina, è evidentemente volta a neutralizzare il rischio - concreto - di dichiarazioni "manipolate", specie in vicende come quella in esame dove, almeno in astratto ma innegabilmente, potrebbero interagire, anche inconsapevolmente nell'accusatore, insondabili impulsi, pulsioni e tensioni emotive, tali da suggerirgli o condurlo a dichiarazioni, dettate magari da un sentimento - umanamente comprensibile ma giuridicamente inaccettabile - di rivalsa o vendetta nei confronti dell'imputato che tendano a "distorcere" strumentalmente la realtà dei fatti al fine di fornire una versione degli stessi interessata e fuorviante.

Ci si preoccupa, giustamente, di garantire che le dichiarazioni di accusa della vittima siano il più possibile genuine e "disinteressate" e quindi intrinsecamente attendibili, ma allorché sia provato tale loro carattere le dichiarazioni della persona offesa, pur se astrattamente non equiparabili a quelle del testimone estraneo, possono fondare autonomamente - senza cioè la necessità di riscontri esterni - una pronuncia di condanna.

Peraltro il disposto dell'art. 192 c.p.p. non prevede particolari parametri di valutazione di tali dichiarazioni, né subordina la loro rilevanza a condizioni specifiche per cui è da ritenersi che l'accusa della vittima sia, di per sé, una fonte di prova a tutti gli effetti.

Ciò chiarito deve subito sottolinearsi che l'inattendibilità intrinseca della persona offesa dichiarante non può farsi discendere, allorché l'impianto narrativo sia nel suo complesso logico e coerente, da eventuali discordanze o imprecisioni su fatti marginali della vicenda ed inoltre anche qualche contraddizione può non essere rilevante ai nostri fini perché una versione dei fatti, affatto identica e senza incertezze, che come un cuneo inarrestabile superi il lasso cronologico e tutte le fasi processuali ben può apparire sospetta, perché magari studiata e preparata "a tavolino".

Insomma, ben può essere ritenuta credibile ed attendibile la persona offesa che, pur con qualche comprensibile e giustificabile tentennamento, mantenga ferma la sua versione accusatoria nei punti essenziali della vicenda che l'hanno, suo malgrado, vista protagonista.

In quest'ottica valutativa non può trascurarsi il parametro della logica nel senso che, in presenza o sospetto di un intento calunnioso da parte della vittima, è ragionevole ritenere che la sua versione dei fatti non possa, in linea astratta, presentare punti deboli o facilmente attaccabili di talché anche una dichiarazione che sia, a prima vista, oggettivamente carente può essere indirettamente il riscontro dell'attendibilità complessiva di colui che l'ha resa.

In altri termini allorché la versione accusatoria presenti oggettive lacune o incongruenze che però siano spiegabili sotto il profilo della logica e del dato fattuale, l'attendibilità del dichiarante può essere affermata.

Se ciò è vero - e non si vede come, sulla base del concorde ed univoco insegnamento dottrinale e giurisprudenziale, possa essere negato deve subito affermarsi che le dichiarazioni rese in dibattimento da GE. An. sono apparse nel loro complesso non solo attendibili, ma anche fornite di alcuni riscontri esterni, ed appaiono tali da costituire una solida piattaforma cui, eventualmente, agganciare il giudizio di responsabilità dell'imputato.

In estrema sintesi - riservando una disamina più approfondita allorché dovrà valutarsi la sussistenza del delitto contestato - la GE. ha dichiarato in dibattimento di essere, da anni, minacciata ed insultata anche per strada dall'imputato - figlio del suo vecchio datore di lavoro - che, continuamente senza una ragione, allorché la incontra le rivolge offese, minacce, la rincorre, passa sotto la sua abitazione e le grida epiteti e parolacce, ha minacciato di ucciderla e che in un'occasione le aveva anche sputato in faccia, tanto che ella, per paura, non scende più di casa allorché lo vede sulla strada ovvero se lo incontra sulla pubblica via è costretta a cambiare strada.

Orbene dette dichiarazioni sono, all'evidenza, lineari e coerenti, non sorrette da particolare astio e/o rancore nei confronti dell'imputato, e neppure connotate da "amnesie tattiche" ovvero opportunistiche rimodulazioni "in corso d'opera" a seconda delle contestazioni che potevano esserle mosse sicché, sotto questo profilo, sono senz'altro credibili.

Certo appare sorprendente che la GE. non abbia fornito alcuna spiegazione del comportamento dello SP. ma ciò, a ben vedere, rappresenta un indice della sua credibilità intrinseca perché in un'ottica calunniosa ella avrebbe certamente delineato scenari e causali diverse.

Verosimilmente poiché emerge dagli atti che l'imputato aveva molti anni fa colpito e picchiato il marito, poi deceduto, della GE. la condotta dello SP. potrebbe essere considerata quasi una sorta di reazione alle conseguenze di quell'episodio, ma si tratta – oggettivamente - di una mera supposizione perché - si ribadisce - la GE., nonostante le sollecitazioni, non ha fornito alcuna causale.

Inoltre, come anticipato, tali dichiarazioni hanno ricevuto anche un preciso riscontro dal momento che il teste di P.G., CI. Pa. - assistente in forza alla Polizia di Stato - ha riferito che il giorno 28 novembre 2019 la signora GE. aveva richiesto il loro intervento ed era stata trovata, in uno stato di grande agitazione, in strada ed aveva riferito di essere stata nuovamente infastidita dallo Sp. ed ha anche dichiarato che risultavano essere state presentate varie denunce dalla signora GE. per episodi analoghi.

Orbene non vi sono ragioni per dubitare dell'attendibilità di tali dichiarazioni che provengono da un pubblico ufficiale, certamente consapevole delle conseguenze in caso di mendacio e/o reticenza, il quale non ha nessun plausibile interesse a mentire e che, per di più, ha riferito fatti a sua diretta conoscenza, sicché è indiscutibile che la versione accusatoria della persona offesa abbia ricevuto un ulteriore riscontro.

D'altro canto l'imputato non ha fornito alcun dato, neppure ipotetico o indiretto, tale da contraddire o inficiare la prospettazione dell'accusa che, quindi, anche sotto tale profilo deve ritenersi fondata.

Si tratta ora di stabilire se detta versione delinei una condotta sussumibile nel paradigma dell'art. 612 bis c.p. e non vi è dubbio che la risposta a tale quesito debba essere affermativa.

Invero è noto che il delitto ex art. 612 bis c.p. si connota, ontologicamente, per una serie reiterata di condotte - anche non necessariamente violente - con le quali l'agente crea nella persona offesa una condizione di assoluto disagio e paura, che ne compromette e lede la libertà di scelta e la costringe a modificare le proprie abitudini di vita.

In sostanza la persona offesa non è più libera di agire come meglio crede ma deve necessariamente, per timore e paura anche dell'incolumità fisica propria o delle persone a lei vicine, a, parametrare le sue scelte alle iniziative del suo persecutore per tentare di sfuggire alle stesse.

A fronte di ciò risulta inoppugnabile, secondo il Giudicante, che la condotta complessiva dello SP. così come univocamente ricostruita nel corso dell'istruttoria dibattimentale, integri pienamente i profili costitutivi del delitto contestato dal momento che sono provate le reiterate e continue minacce ed insulti anche per stradagli appostamenti rectius i passaggi intenzionali sotto l'abitazione della GE. e gli epiteti rivoltile; le varie denunce sporte dalla persona offesa che testimoniano la reiterazione sistematica della condottagli effetti sulla psiche e volontà della GE. che ogni qualvolta incontra l'imputato è costretta a cambiare strada ovvero, se lo vede sulla strada addirittura, non scende da casa come da lei riferito in dibattimento sicché può dirsi senz'altro realizzata quella condizione che ha costretto la persona offesa a modificare le proprie abitudini ed a vivere in uno stato di continua preoccupazione e paura in grado di produrre effetti destabilizzanti (cfr. per tutte Cass. Pen. sez. V 18 aprile 2019 n. 22475).

In tale delitto può essere poi ricompresa anche la condotta che costituisce l'oggetto della contestazione del reato ex art. 56-610 c.p., posta a base dell'imputazione di cui al proc. pen.8078/20 Dib. considerato che essa è ricompresa nell'arco cronologico degli atti persecutori ed è senza dubbio espressione di una precisa volontà dello SP. di "tormentare" la GE.

Non sfugge al Giudicante il contrario orientamento giurisprudenziale della S.C. - cfr. per tutte Cass. Pen. Sez. V del 10 gennaio 2022 n. 7559 - secondo cui, stante la diversità del bene giuridico protetto, vi è la possibilità del concorso tra il reato di atti persecutori e quello di violenza privata, ma è un fatto che, nella fattispecie, la minaccia rivolta a GE. An. di "non passare per (omissis)" faccia parte del più ampio disegno dello SP. teso a condizionare la vita della persona offesa.

Il delitto ex art. 56-610 c.p. di cui al procedimento indicato non può che essere assorbito nella condotta complessiva posta a base della contestazione del delitto ex art. 612 bis c.p.

Deve poi essere esclusa, non ricorrendone i presupposti in fatto, la circostanza aggravante di cui all'art. 612 bis c.p.

SP. Or. va dunque condannato per il delitto ex art. 612 bis c.p.., in essa assorbita la condotta del reato ex art. 56-610 c.p., e nell'ottica del doveroso adeguamento della sanzione al fatto concreto possono essergli concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti -all'esito del giudizio di comparazione ex art. 69 c.p. - alla recidiva contestata sicché, una volta applicati i criteri indicati dall'art. 133 c.p., risulta equa la pena di armi uno e mesi sei di reclusione. Ex lege segue la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali.

Infine il notevole carico di lavoro dell'udienza e complessivo ha determinato il ricorso ad un più ampio termine per il deposito della motivazione.

P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara SP. Or. responsabile del delitto di cui all'art. 612 bis c.p., in esso assorbita la contestazione di cui agli artt. 56-610 c.p. di cui al procedimento RG. DIB. 8072/20 e, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata, esclusa l'aggravante di cui all'art. 612 bis co. 2 c.p., lo condanna alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione oltre al pagamento dele spese processuali. Indica in giorni novanta il termine per il deposito delle motivazioni della sentenza.

Così deciso in Napoli, il 10 ottobre 2022

Depositata in Cancelleria il 2 novembre 2022

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