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Un processo senza popolo: l’agonia liturgica dell’art. 492 c.p.p.

Conclusa la fase preliminare — rituali d’identità, verifiche di regolarità — l’art. 492 c.p.p. prescrive la dichiarazione d’apertura del dibattimento: gesto breve, solenne in teoria, purtroppo ridotto a mera epifania verbale.

Una norma dimenticata: due commi, asciutti, funzionali ma costruiti con l’ossatura di chi ha chiaro in mente il modello di un rito.

Nelle viscere della norma, un battito d'antico dramma sopravvive: il secondo comma dispone che non il giudice — autorità neutra, icona d’imparzialità — legga il capo d’imputazione, bensì un ausiliario, custode delle forme, voce delegata.

Il giudice assiste, ascolta, tace: non vi è contaminazione fra l’accusa proclamata e il soggetto chiamato a giudicare. Pura terzietà.

È, o meglio, sarebbe una scena di alto pathos civile.

L’imputato ascolta la pubblica enunciazione dell'accusa, il popolo — l’assemblea invisibile della società che giudica se stessa — dovrebbe essere lì, partecipe, testimone, pietra viva del processo.

Il diritto penale, così inteso, assume il volto della liturgia: non mero contenzioso fra privati, non sterile sequela di atti, ma purificazione comunitaria; rito doloroso ma necessario, in cui l’ordine sociale si rigenera attraverso il riconoscimento pubblico della trasgressione e della pena.

Ma questa scena, nella prassi forense, è una favola morta.

La lettura è quasi sempre omessa o dichiarata “per nota”.

Il pubblico latita, le aule sono deserti burocratici, la dichiarazione d’apertura del dibattimento è una formula impalpabile, una breccia d’aria.

Nessuno ascolta, nessuno si commuove, nessuno si riconosce.

Il processo, un tempo rito e dramma, è divenuto catena industriale: smaltire fascicoli, decapitare pendenze, misurare produttività anziché produrre giustizia.

Così muore il processo penale nella sua dignità sacramentale: non più la rappresentazione collettiva della legge che giudica, ma uno strumento amministrativo senza anima, in cui la società non si educa, non si purifica, ma semplicemente dimentica.


 
 
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